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Storia e risultati di alcune delle riforme più importanti dell'Università italiana


Premessa

Nell'aprile del 2008 ho scritto alcune considerazioni sulla storia ed i risultati di alcune delle riforme più importanti della scuola italiana che ho poi pubblicato su questo sito [>>] aggiungendovi successivamente alcuni ulteriori commenti sulla Riforma Gelmini che è uscita dopo che avevo pubblicato il mio scritto.

Era mia intenzione scrivere, entro breve tempo, una analoga pagina sulla storia e sui risultati di alcune delle riforme più importanti dell'Università italiana ma invece mi sono reso conto che si trattava di problemi diversi e complessi per cui è passato parecchio tempo prima che mi accingessi a farlo.

Infatti, mentre per le altre scuole è abbastanza facile constatare che l'unica riforma che potrebbe dare qualche risultato sia tornare indietro e cioè decidere in quale anno la scuola funzionasse meglio e rimettere in vigore i regolamenti di allora, per l'Università ciò non è possibile sia perché occorrerebbe andare troppo indietro nel tempo, sia perché una siffatta Università non sarebbe adatta alle necessità odierne.

C'è anche da dire che se le scuole superiori ritornassero quelle di un tempo e specialmente gli istituti tecnici sfornassero nuovamente dei diplomati con un altissimo livello di professionalità, molti giovani potrebbero trovare subito uno sbocco lavorativo senza bisogno di frequentare l'Università [1].

Si sente spesso dire che in Italia c'è necessità di laureati in materie scientifiche e che gli altri paesi ne sfornano ogni anno molti di più che da noi ma non si considera che molti di questi laureati hanno una preparazione a livello di quella che in tempo davano da noi gli istituti tecnici.

Si fa anche molta confusione con i termini stranieri. Non tutti sanno che, nei paesi di lingua inglese, quello che viene chiamato engineer non è affatto quello che da noi è un ingegnere e che tale termine indica invece, nella maggior parte dei casi, un tecnico specializzato.

Per di più gli industriali italiani peggiorano la situazione lamentandosi del fatto che i neolaureati non siano immediatamente utilizzabili e che richiedano un periodo di addestramento. Un laureato deve avere una conoscenza di base del suo settore ed una spiccata capacità di apprendere e mantenersi aggiornato ma non può conoscere nel dettaglio tutte le problematiche e tutte le tecnologie che gli si potrebbero presentare.

Insegnare solo quello che serve subito può far guadagnare qualche mese alla ditta che assume il giovane ma le tecnologie cambiano e chi non abbia una conoscenza di base ed una capacità di adeguarsi ai cambiamenti diventa ben presto una palla al piede. Lo si è visto molto bene ai primordi dell'informatica quando varie ditte, anziché assumere degli specialisti, hanno preferito far seguire dei corsi di programmazione a loro dipendenti individuati tramite test psicoattitudinali.

Qualcuno ha fatto i corsi ma poi è tornato al vecchio lavoro perché non riusciva a scrivere programmi per il computer (o non gli piaceva) mentre molti di quelli che invece riuscivano a programmare, anche molto bene, si sono poi trovati in grande difficoltà quando il velocissimo mutare delle tecnologie li obbligava a programmare con nuovi linguaggi che non conoscevano ed ai quali non riuscivano ad adeguarsi rapidamente.

Spesso è successo che, in seguito, la ditta abbia poi assunto dei giovani specialisti ma abbia lasciato costoro a coordinarli col risultato di avere dei capi che non erano più in grado di valutare ciò che facevano o non facevano i loro sottoposti e si limitavano a fare una fotografia di cosa stavano facendo i programmatori che dirigevano per vedere che non stessero leggendo il giornale ma senza essere in grado di capire se stessero lavorando bene o male o addirittura per nulla.

Così ci sono stati dei casi (e ne ho visti) dove grosse ditte che avevano molti analisti informatici e programmatori fra i loro dipendenti finissero per acquistare del software costoso e non mirato alle proprie esigenze da softwarehouse che avevano alle loro dipendenze molti meno specialisti informatici della prima ditta.

A onor del vero ciò non accadeva solo in Italia ed anni fa, si raccontava di una ditta straniera che, dopo essersi rivolta ad una piccola softwarehouse che produceva software adattissimo alle proprie esigenze, qualche tempo dopo, ha scoperto che tale softwarehouse era formata dai propri specialisti informatici che, come secondo lavoro, producevano il software che acquistava.

Per tutti questi motivi per prima cosa esaminerò le riforme che hanno dato più problemi e poi farò alcune considerazioni sul ruolo che l'Università, secondo me, dovrebbe avere e sui possibili modi in cui lo potrebbe svolgere con successo.

Le lauree 3 + 2

L'ultima riforma in ordine di tempo è quella cosiddetta delle lauree 3 + 2. E' nata dal fatto che, in Italia, erano ormai moltissimi gli studenti che si iscrivevano all'Università ma che poi la abbandonavano senza essere riusciti ad arrivare a laurearsi.

Per ovviare ciò si è pensato di spezzare la maggior parte dei corsi di Laurea, che in precedenza richiedevano quattro o cinque anni di corso, in due tronconi, il primo dei quali di tre anni ed il secondo di due. Quindi chi studi anche solo per tre anni può comunque ottenere una laurea che viene appunto chiamata Laurea Triennale o laurea breve.
Chi vuole può poi proseguire per altri due anni per ottenere la cosiddetta Laurea Magistrale.

L'idea in sé non appariva sbagliata ma quasi tutti ora concordano nel dire che questa riforma è fallita miseramente. Secondo me ciò è avvenuto per due motivi: il primo è che la riforma è stata applicata malamente nella maggior parte delle Università ed il secondo è molto più sfumato ma è nell'idea stessa alla base della riforma e lo esplico più avanti.

E' del tutto evidente che se si vuole comprimere in tre anni una laurea che prima ne richiedeva quattro o cinque occorre tagliare qualcosa. La cosa più logica sarebbe stato ridurre il numero degli esami tenendo solo quelli più importanti e di base lasciando i complementari agli eventuali due anni successivi.

Invece, nella maggior parte dei casi, non è stato fatto così e gli esami sono rimasti tantissimi ma, in teoria, alcuni di questi dovrebbero essere più facili in quanto, per laurearsi, non conta più superare un tot di esami ma raggiungere i 180 crediti e quindi, dato che il valore di ogni esame in crediti varia, ciò significa superare un numero variabili di esami.

In molti casi, se si va a vedere il valore in crediti dei singoli esami, si vede che invece di raggiungere i 180 crediti con pochi esami importanti li si deve raggiungere con una miriade di esami che danno il minimo valore di crediti per cui accade che, in tre anni, si debbano superare più esami di quelli che si dovevano superare quando la laurea era lunga quattro o cinque anni.
Perché accada ciò non è facile da capire e comunque è diverso da caso a caso ma alcune persone molto sospettose fanno notare che così non è stata eliminata alcuna cattedra.

Se i singoli esami devono essere più semplici di quelli di un tempo si sarebbero dovuti riscrivere i programmi di studio ed i libri su cui studiare per adattarli alle nuove esigenze ma, in molti casi, ciò non è avvenuto ed ho addirittura visto alcuni corsi di laurea che utilizzano lo stesso libro di testo su cui ho studiato io nel 1968!

Ovviamente i professori tengono conto di ciò ma non tutti chiariscono quali siano le parti del libro da saltare e si limitano ad essere genericamente più buoni, col risultato che gli studenti si trovano in difficoltà a capire cosa sia importante e cosa non lo sia, il risultato dell'esame diventa più aleatorio e la preparazione generale più scarsa.

L'errore più grave della riforma è però alquanto nascosto e consiste nel fatto che non si è tenuto conto che, un tempo, tutte le lauree e specialmente quelle più impegnative avevano un periodo di formazione di base di almeno due anni e solo dopo tale periodo si cominciava ad approfondire gli aspetti pratici della materia.

Riducendo il corso di laurea a tre anni non si è potuta mantenere questa impostazione altrimenti il laureato triennale non sarebbe stato in grado di lavorare ed avrebbe dovuto necessariamente proseguire gli studi e così il risultato è stato che, dopo tre anni, abbiamo un laureato che ha fatto pressoché gli stessi studi di chi prima li faceva in quattro o cinque anni ma li ha fatti in maniera molto più approssimativa e superficiale.

Chi continua gli studi per altri due anni non ricupera più le basi che non si è potuto fare a suo tempo e si limita ad approfondire un argomento specialistico che, per altro, non è affatto detto gli serva poi sul lavoro.
Per di più qualche Università ha fatto la pensata di considerare le due lauree assolutamente slegate fra loro impedendo quindi di iscriversi con riserva alla Laurea Magistrale a chi stia per ottenere la Laurea Triennale nella sessione di febbraio-marzo e facendo così perdere un ulteriore anno ai malcapitati studenti.

Rimediare a tutto ciò non sarebbe difficile ma occorrerebbe il coraggio di differenziare notevolmente le due lauree e tornare circa alla situazione di un tempo quando esistevano le lauree di quattro o cinque anni ed i Diplomi Universitari che, in alcuni casi, si potevano ottenere anche in soli due anni.

Lo studente quindi dovrebbe decidere, già al momento dell'iscrizione all'Università, se studiare per due o tre anni ed ottenere un Diploma universitario che potremmo pure chiamare Laurea Triennale o se studiare quattro o cinque anni per ottenere la laurea o Laurea Magistrale.
I programmi sarebbero però alquanto diversi fra loro in quanto, nel primo caso, sarebbero orientati quasi subito alla pratica ed al futuro lavoro mentre nel secondo avrebbero molti più esami di base che diano una conoscenza molto più diffusa dell'argomento.

Ovviamente non sarebbe proibito passare da un corso all'altro ma dovrebbe essere subito chiaro che ciò non sarebbe né automatico, né facile: chi segue il corso breve dovrebbe superare svariati esami di base per mettersi in pari mentre chi viene dal corso più lungo vedrebbe svalutata l'importanza di molti degli esami di base che ha già superato.

I corsi di Laurea ed i vari insegnamenti

Una critica che si sente spesso fare alla moderna Università è l'eccessivo numero dei corsi di laurea e delle varie materie. Ciò porta ad avere dei laureati con dei titoli estremamente specifici spesso non immediatamente comprensibili e non spendibili facilmente sul mercato del lavoro ed a un numero straordinario di materie di insegnamento, molte delle quali frequentate da un numero piccolissimo di studenti con pesanti effetti sulle finanze delle Università.

Un tempo i corsi di laurea erano pochi e ben stabili, così come i loro programmi di base. La rapida evoluzione della tecnologia ha reso necessario aumentare il loro numero per coprire le nuove esigenze ma ci sono ben pochi dubbi sul fatto che si sia esagerato e per di più senza reali motivazioni dato che era sempre possibile, come si faceva in passato, creare delle specializzazioni all'interno del medesimo corso di laurea semplicemente diversificando gli esami complementari ma mantenendo intatto il percorso di base.

Io sono laureato in ingegneria già da moltissimi anni e mi sono sempre mantenuto aggiornato ma se dovessi spiegare nel dettaglio in cosa consistano i numerosissimi e diversi corsi di laurea in ingegneria che esistono oggi mi troverei in difficoltà (per altro ho anche il diploma di maturità classica ma mi troverei ugualmente in difficoltà a spiegare cosa sia il liceo classico ad indirizzo scientifico che pure esiste).

Tutto ciò ha origini antiche e non dipende solo dalla fantasia di chi vuole attirare più studenti possibile ma risale alla vecchia vicenda dei piani di studio. Un tempo il numero ed il tipo di esami da superare per conseguire una certa laurea era rigidamente determinato e si poteva solo scegliere un numero prefissato di esami complementari da una lista ben precisa.

Dopo il '68 si è voluta dare allo studente la possibilità di presentare un proprio piano di studio contenente anche esami previsti per altri rami del suo corso di laurea o addirittura di altri corsi di laurea. Tale piano, però, era soggetto ad approvazione e poteva essere bocciato.

Se ci si fosse limitati, come in effetti è stato per qualche tempo in qualche Università, a permettere solo la sostituzione di esami complementari, la cosa avrebbe potuto anche essere utile. Invece, ben presto, si è permessa anche la sostituzione di esami fondamentali con altri estremamente diversi col risultato di ottenere dei laureati che non erano né carne, né pesce e che era ben difficile inquadrare in un reale corso di laurea. Si sono così creati nuovi corsi di laurea via via sempre più fantasiosi e ristretti.

Per quanto riguarda le singole materie non c'è dubbio che siano troppe e basta vedere le statistiche sul loro aumento negli anni per rendersene conto. In alcuni casi, secondo le persone molto sospettose, già citate, ciò sarebbe successo per creare delle cattedre ad hoc. Non ho alcuna prova su ciò ma non c'è dubbio sul fatto che più è ristretto un argomento meno sono gli specialisti che hanno i titoli per concorrere a quella cattedra.

Alla fine degli anni '80, quando mi occupavo della procedura paghe per le università italiane, rimasi esterrefatto nel vedere il titolo di una materia di studio. Non dirò né il titolo, né l'università coinvolta ma posso dire che si trattava di un esame di storia su di un argomento di per sé lecito ma limitato ad un'area talmente piccola, sia geograficamente che temporalmente, da risultare del tutto ridicolo.

Chi abbia letto le pagine che ho scritto, in questo sito, sulla storia di Pontelagoscuro sa come io ritenga importante la storia di questo piccolo borgo che rappresenta un unicum in Italia e di come ritenga il XVII secolo fondamentale per tale storia ma troverei estremante assurdo e ridicolo che qualcuno proponesse una materia d'insegnamento in Storia di Pontelagoscuro nel XVII secolo. Per altro non c'è dubbio che, se una tale cattedra fosse effettivamente creata, gli specialisti in grado di concorrervi si conterebbero sulle dita di una mano.

Per rimediare a questi difetti occorre riportare i corsi di laurea ad un numero molto più piccolo trasformando gli altri in specializzazioni che nascono dalla diversa scelta degli esami complementari mentre quelli di base sono fissi ed immutabili. Le singole materie vanno ridotte di numero non in base al numero di studenti che li seguono ma in base alla loro effettiva importanza.

Ciò dovrebbe essere fatto dalle singole Università ma, per spingerle a farlo, si potrebbe stabilire il numero massimo di esami complementari che si possono creare per ogni corso di laurea. Dato che gli studenti potrebbero ancora presentare loro piani di studio purché riguardino solo gli esami complementari, le varianti possibili sarebbero tantissime e permetterebbero di soddisfare tutte le esigenze.

Il numero chiuso

Un tempo in Italia non esisteva il numero chiuso: all'Università si poteva iscrivere chiunque avesse i titoli per farlo. In altri paesi europei, ad esempio la Grecia, invece non era così ed esisteva il numero chiuso e dato che l'Università italiana accettava senza problemi anche questi studenti, per qualche tempo le nostre Facoltà sono state zeppe di studenti greci che, non essendo riusciti a superare la selezione del numero chiuso a casa loro, venivano a studiare da noi.

Dopo le riforme della scuola superiore che hanno portato ad avere dei diplomati meno preparati e meno atti ad iniziare a lavorare, essendo anche stati resi meno rigidi i titoli per l'iscrizione alle varie Facoltà, è accaduto che molte Facoltà venissero sommerse di iscritti, in svariati casi semplicemente parcheggiati lì in attesa di trovare da lavorare.

Secondo le teorie economiche liberiste, che oggi praticamente tutti i partiti dicono di appoggiare, non ha senso limitare il numero degli iscritti se ciò viene fatto in funzione di un controllo legato alle previste necessità di specialisti in quanto sarà poi la selezione naturale ad eliminare dal mercato gli specialisti meno capaci.

Se invece viene fatto dalla singola Università perché è non in grado di offrire un insegnamento adeguato ad un numero eccessivo di studenti, ciò può essere considerato corretto ma solo per un certo periodo di tempo perché, se la richiesta rimane elevata per vari anni, l'Università si deve adeguare alla maggior richiesta ed attrezzarsi per essere in grado di accogliere un maggior numero di studenti.

Per altro, se il motivo dell'esistenza del numero chiuso per alcune Facoltà fosse questo, non ci dovrebbe essere alcuna selezione e tutti gli idonei ad iscriversi dovrebbero essere accettati fino al raggiungimento del numero massimo previsto. Se tale numero fosse superato già il primo giorno valido per iscriversi si dovrebbe sorteggiare chi prendere.

Tutte le Università fanno invece delle selezioni con metodi che sono soggetti a molte critiche. Non ho approfondito troppo questo argomento ma ho visto una selezione di domande fatte agli aspiranti all'iscrizione in diverse Facoltà e vi ho riscontrato molti di quelli che io ritengo gravi difetti.

Innanzi tutto non mi piacciono gli esami fatti a quiz con risposte multiple fra le quali scegliere. Capisco che così facendo sia più veloce correggere gli elaborati e confrontarli fra loro, ma si tratta di un metodo barbaro che non permette di valutare la vera preparazione dell'esaminando e che talvolta si presta a molteplici interpretazioni, specie nelle cosiddette domande di logica, per cui anche una risposta corretta può essere considerata errata perché si è seguito un ragionamento logico diverso da quello di chi aveva scritto la domanda.

Poi logica vorrebbe che, per scegliere i più adatti a seguire un dato corso di laurea, si valutasse la loro conoscenza nelle materie che formano la base per seguire quel corso di laurea e che l'esaminando ha già studiato a scuola. In molti casi invece ci sono domande che riguardano le materie di ciò che verrà insegnato in quel corso di laurea e che l'esaminando non è tenuto a conoscere finché non gli vengono insegnate.

Peggio ancora si sono verificati dei casi, alcuni dei quali anche finiti sui giornali per le polemiche che ne sono seguite, dove vi era delle domande che non solo non avevano nulla a che fare né col corso di laurea in oggetto, né con la cultura in generale ma richiedevano risposte relative al mondo dello spettacolo, delle canzonette, dello sport e di altri argomenti che nessun studente è tenuto a conoscere.

Ritengo pertanto che il numero chiuso andrebbe abolito se non in casi limitati e temporanei. Ricordo però che, secondo le teorie liberiste, deve essere il mercato a fare da regolatore per cui, se ci sono troppi studenti che vogliono diventare medico e pochi che vogliono diventare infermiere, la soluzione non è applicare il numero chiuso bensì lasciare che il mercato paghi di meno i medici in sovrabbondanza e di più gli infermieri che invece mancano.

Comunque, se si riportasse la scuola pubblica a quello che era una volta, il problema si risolverebbe da solo perché sarebbero molti di più gli studenti che incomincerebbero a lavorare subito dopo il diploma superiore senza andare ad intasare le Università.

La ricerca

Molto spesso si sentono delle lamentele su come, in Italia, la ricerca sia trascurata e riceva pochi fondi e talvolta si vedono anche dei ricercatori universitari inscenare manifestazioni di protesta. In realtà, in Italia, per la ricerca (ma è così anche per l'arte e la cultura) si riesce nella non facile impresa di spendere, contemporaneamente, sia troppo che troppo poco.

Infatti, se si guarda quale percentuale del PIL viene spesa per la ricerca, si vede facilmente che questa è più bassa rispetto a quanto spendono gli altri paesi europei ma se si guarda come viene spesa questa cifra, già bassa, si vede che viene in parte sprecata sia perché suddivisa in troppi rivoli, sia perché data anche a progetti di scarsa qualità.

La situazione viene aggravata dall'importanza che viene data alle cosiddette pubblicazioni che sono quasi gli unici titoli che contano per la carriera perché così può accadere che svariate ricerche siano più tese ad arrivare ad una pubblicazione che a scoprire qualcosa di nuovo.

A dire il vero questo non è un vizio solo italiano: una ventina di anni fa la Comunità europea decise di preparare un albo di specialisti in vari settori con una vasta esperienza alle spalle ai quali rivolgersi in caso di necessità improvvise. Erano previsti anche gli informatici e quindi chiesi il modello da compilare per partecipare alla selezione ma rimasi molto stupito quando vidi che praticamente l'unica cosa che contasse fossero le pubblicazioni e non i lavori svolti.

Per certe discipline umanistiche ciò può avere un senso ma per quelle scientifiche è assurdo: sarebbe come, cercando un ingegnere per costruire una torre metallica, si scartasse l'ing. Eiffel che ha solo costruito l'omonima torre e gli si preferisse uno sconosciuto Pinco Palla che però avesse pubblicato venti articoli sulla Tour Eiffel.

Per soddisfare l'eventuale curiosità del lettore vi dirò che non sono stato inserito nell'albo in questione ma che mi sono consolato pensando che, se avessero avuto bisogno di un filosofo o di un teologo, avrebbe scartato sia Socrate che Gesù Cristo perché nessuno dei due ha mai pubblicato un rigo.

In Italia, per altro, la situazione è peggiore che all'estero perché da noi non esiste un metodo, universalmente condiviso, di valutare le pubblicazioni per cui c'è anche la tendenza a pubblicare il più possibile perché può accadere che venga valutata maggiormente la quantità di pubblicazioni fatte rispetto alla loro qualità.

Secondo me, però, prima di discutere se si spenda molto o poco per la ricerca universitaria, bisognerebbe porsi la domanda su quali siano i compiti delle Università e se sia assolutamente indispensabile che una Università si occupi di ricerca o se tale compito possa essere demandato ad appositi enti che, per altro, esistono già in gran numero.

Anche se ritengo che il compito principale delle Università sia l'insegnamento, non ho una risposta a questa domanda per cui continuerò a considerare la ricerca uno dei compiti di base delle Università. Secondo me però questi due compiti, insegnamento e ricerca, non vanno trattati assieme in un mescolone inestricabile ma vanno considerati separatamente così come spiego nel prossimo capitolo.

La selezione degli insegnanti

Un altro argomento sul quale ci sono spesso polemiche sono i metodi di selezione degli insegnanti. Quando, nel 1968, dovevo decidere a quale Facoltà iscrivermi mi sarebbe piaciuto studiare Scienze naturali ed occuparmi di problemi relativi al mare ma allora si poteva fare ciò solo in ambito universitario.

Ho chiesto allora a dei professori universitari quale fosse l'iter per accedere alla carriera universitaria e la loro risposta mi ha convinto ad abbandonare la mia idea e ad iscrivermi invece ad Ingegneria. Mi è stato prospettato infatti uno sviluppo di carriera, non solo molto duro e mal pagato per molti anni, ma soprattutto estremamente aleatorio. In pratica non c'era alcuna garanzia di non trovarsi con un pugno di mosche dopo una decina d'anni di duri sforzi.

Successivamente la situazione è cambiata e sono stati previsti dei concorsi periodici per le tre figure base dei docenti universitari: il gradino più, basso era il ricercatore, seguiva il professore associato e al top vi era il professore ordinario. Nelle università vi era però una miriade di altre figure che, con la speranza di diventare ricercatori, svolgevano lavori (solitamente pagati poco o nulla) in base a borse di studio ed altre forme di collaborazione.

I concorsi, specialmente quelli a ricercatore, si sarebbero dovuti svolgere con una certa regolarità ma, nei primi tempi, ciò non accadde ed i concorsi ci furono a distanza di quasi dieci anni l'uno dall'altro. Per cui furono assunti come ricercatori e si trovarono posti allo stesso livello, sia chi collaborava da anni con l'Università, sia chi era lì da pochissimo tempo. Chi invece aveva avuto la sfortuna di rimanere fuori dal concorso per pochi giorni doveva poi aspettare anni prima che ce ne fosse un altro.

Dove però, di solito, nascono più polemiche sono i concorsi a professore ordinario perché si tratta della posizione più prestigiosa e perché sono quelli dove è più difficile operare una scelta dato che, solitamente, tutti i candidati hanno titoli elevati e sono molto preparati.

Spesso le polemiche riguardano accuse di nepotismo ma ho sentito anche critiche all'impostazione stessa dei concorsi. La soluzione più semplice potrebbe essere adottare gli stessi metodi di selezione degli insegnanti delle scuole superiori con graduatorie nazionali alle quali rivolgersi quando si libera una cattedra ma ciò si scontrerebbe con l'autonomia delle Università e la peculiarità dell'insegnamento universitario.

Sul fatto che si debbano migliorare anche i metodi di selezione degli insegnanti ci sono pochi dubbi perchè le Università italiane, anche le più prestigiose, stanno continuamente perdendo posizioni nella classifica mondiale che valuta la bontà dell'insegnamento offerto.

Anche se esistono migliaia di insegnanti bravissimi che non fanno notizia, sui giornali e per televisione si trovano da tempo alcuni docenti universitari che, appoggiandosi al loro titolo, pontificano su tutto, anche su quello che nulla a che fare con la loro materia, dicendo spesso delle assurdità ed esponendosi a polemiche e critiche.
Mi chiedo come i loro Rettori possano permettere ciò e specialmente dove costoro trovino il tempo di insegnare.

Più recentemente si sono visti docenti universitari pontificare davanti ai giornalisti, su argomenti inerenti alle loro materie d'insegnamento, proponendo idee alquanto controverse che, specie quando i fatti le hanno smentite, sono state oggetto di molte critiche ed hanno fatto scrivere ai giornalisti che anche un bidello avrebbe saputo fare meglio.

Quello però che ritengo più grave è che alcuni di questi famosi docenti hanno fatto vedere di non essere in grado di spiegare con chiarezza i concetti che volevano esprimere e di utilizzare lunghi, involuti e noiosissimi discorsi per esprimere le proprie idee.
Mi chiedo come i loro sfortunati studenti, assistendo alle loro lezioni, possano capire quali siano i concetti più importanti espressi in quella lezione.

Quando ero all'Università una delle cose più temute agli esami era che il professore, dopo aver chiesto una data cosa ed aver avuto la risposta corretta, dicesse adesso mi spieghi questa cosa con parole sue come se io fossi un ignorante che non sa nulla di questa materia [2].

Ritengo che la capacità di spiegare la propria materia anche in questo modo dovrebbe essere una delle caratteristiche fondamentali di un buon docente. Comunque non darò suggerimenti su come effettuare i concorsi ma mi limiterò a dire quali caratteristiche, secondo me, dovrebbe avere chi insegna all'università.

Come ho accennato in precedenza ritengo assurdo mescolare insegnamento e ricerca in modo inestricabile. Secondo me le caratteristiche che deve avere il bravo professore sono diverse da quelle che deve avere il bravo ricercatore. Il primo deve soprattutto saper insegnare, deve essere chiaro e conciso e deve essere a disposizione degli studenti per eventuali chiarimenti, il secondo deve saper fare una ricerca con metodo scientifico, essere capace di individuare ciò che è promettente da ciò che non lo è ed eventualmente deve saper dirigere un gruppo di lavoro.

Secondo me le due carriere di professore e ricercatore dovrebbero essere separate anche se parallele. Avremmo quindi il professore di base che è colui che aiuta un professore associato o un ordinario, il professore associato che aiuta un professore ordinario o gestisce in proprio un corso complementare ed il professore ordinario che gestisce i corsi base.

Per accedere a questa carriera, oltre ad una approfondita conoscenza della materia, sarebbe indispensabile una spiccata capacità ad insegnare e a spiegare le cose con chiarezza e semplicità. Ritengo assurdo che si possa arrivare ai più alti vertici dell'insegnamento senza aver mai studiato la pedagogia e le tecniche per insegnare con successo.

Uno può aver pubblicato tantissimo o magari anche aver vinto il premio Nobel ed essere ugualmente incapace di insegnare e di spiegare con chiarezza la sua materia. E' assurdo far perdere tempo a costui e farlo perdere ai suoi studenti per delle lezioni, sicuramente prestigiose, ma inutili ed è preferibile affidare l'insegnamento a qualcuno di meno titolato ma più adatto e dedicare costui alla ricerca ad alto livello.

Anche la carriera dei ricercatori andrebbe quindi divisa in tre livelli, di pari importanza di quelli equivalenti degli insegnanti: avremmo il ricercatore di base che opera all'interno di gruppi di lavoro, il ricercatore di II livello che dirige piccoli progetti o sottoprogetti di qualcosa di più importante ed il ricercatore di I livello che dirige e coordina i progetti di più alto livello.

A tutto ciò si può obiettare che non si può dividere la ricerca dall'insegnamento perché lo studente deve imparare anche cosa sia la ricerca ma nulla vieta che lo studente, dopo aver seguito un apposito corso su come si fa ricerca, partecipi ad un gruppo di lavoro in mezzo ai ricercatori.

Inoltre nulla vieta che il professore, che si dedica a tempo pieno all'insegnamento, chiami altre persone che portino delle esperienze pratiche agli studenti a tenere alcune lezioni (ma sempre sotto il suo controllo). Fra costoro vi potrebbero essere non solo i ricercatori ma anche persone estranee all'Università ma esperte del settore o che si occupino dell'argomento per conto di altri enti.


[1] - Prima della Seconda Guerra Mondiale alla Bianchi di Milano, che produceva motociclette e biciclette e che dava lavoro a 1400 operai, nessun impiegato era laureato ed il Direttore era un perito industriale.   >>

[2] - Fra di noi studenti ragionavamo su quale potesse essere la cosa più difficile da spiegare in questo modo e siamo giunti alla conclusione che fosse la reattanza la cui definizione ufficiale è la reattanza è la parte immaginaria dell'impedenza.   >>


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