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Il diario di Michele Dossena


Premessa

Michele (Angelo) Dossena nasce il 5 ottobre 1843 a Lodi da Bassano Dossena e Maria Zalli, quindi, quando Garibaldi parte da Quarto, non ha ancora compiuto diciassette anni. Nonostante la giovane età Michele freme e vorrebbe partire tanto più che suo zio materno, Tiziano Zalli, è l'anima del Comitato che sopraintendeva alla spedizione dei Volontari lodigiani in Sicilia e che teneva i contatti col Comitato Nazionale, con sede in Genova, allora presieduto dal Generale Cosenz [1].

I suoi, compreso lo zio Tiziano Zalli, sono contrari al suo arruolamento perché è troppo giovane ma lui parte senza salutare nessuno andando a Milano a piedi e di lì a Genova in treno. Viene poi incorporato nel primo gruppo dei volontari lodigiani e lo troviamo elencato fra i componenti della seconda squadra.

Dopo la campagna di Sicilia entrò nell'esercito regolare, si laureò in Ingegneria Civile e fece carriera nell'Arma del Genio. Morì nel 1915 pochi giorni prima dell'inizio della guerra.

Michele Dossena ci ha lasciato un diario che è stato pubblicato nel 1924 sulla rivista trimestrale Archivio storico per la Città e Comuni del circondario di Lodi [2] . Purtroppo tale diario è incompleto e consta di una prima parte che va all'arrivo a Palermo al soggiorno a Messina con una dettagliata descrizione della battaglia di Milazzo e di una seconda parte che narra del combattimento di Caiazzo e descrive gran parte della battaglia del Volturno cessando però di colpo.

Sono state pubblicate, però, anche tre lettere inviate da Michele Dossena alla madre ed allo zio che integrano quanto scritto nel diario. Riporto qui il testo del diario e delle lettere mantenendo anche l'ortografia originale.

Il testo del diario di Michele Dossena

Dopo cinque giorni di pericoli approdiamo a Palermo il 14 Luglio. Appena sbarcati fummo ricevuti dal nostro Generale Garibaldi. Su quella fronte corrugata era dipinta la gioia nel veder tanti giovani che abbandonato tutto e parenti venivano disposti ad affrontare qualunque pericolo; dalla sua bocca composta a sorriso uscirono parole di consolazione per noi e di coraggio onde continuare con fermezza nell'ardua impresa sì nobilmente cominciata. Ora questo nostro prode capo così ci arringa: Volontari! il carico che vi siete addossato è grande: noi avremo a sorpassare grandi pericoli e a superare enormi fatiche; ma voi li saprete vincere e superare come avete sì nobilmente fatto nel 59; io vi avverto, noi avremo per tetto il cielo e per letto la terra.

Noi accogliamo queste parole del nostro Duce con acclamazioni di gioia e di entusiasmo, i grida di Viva Garibaldi, viva l'Italia si sentirono ovunque.

Prima nostra cura fu di pensare a empire il vuoto del ventre poiché erano cinque giorni che non si mangiava un tozzo di pane duro (galletta) con acqua e cacio; mangiammo, o per meglio dire divorammo e pane e carne, dolci e poponi ed ogni sorta di cibo che ci si presentava. Così ben pasciuti ci avviammo da Borgo al Molo in Palermo ove ci avevano destinato l'alloggio. Entrammo nella città, qua e là ancora si vedevano gli avanzi della tirannide borbonica; percorriamo un buon miglio, finalmente ci fanno entrare in un Convento che ci avevano appositamente destinato.

Tutto il giorno lo si passa in bagordi e a vagare per la città, visitandone le parti principali. Io non pratico del luogo, né confacendomi il trattare di quella buona gente mi accompagnai con un volontario già pratico della città e con lui passai il resto della giornata.

Fatta sera il Municipio di Palermo ci vuol festeggiare facendo una illuminazione per tutta la città che durò sino a notte fatta. A stento riuscii a ritrovare il mio alloggio, appena colà arrivato entrai e subito mi coricai e fino a mattina inoltrata non mi sono svegliato poiché stanco delle fatiche e delle corse fatte il giorno precedente.

Alle ore 10 batte la riunione; tutti ci facciamo nei ranghi e ci vengono distribuiti gli uniformi che consistevano in una bluse, pantaloni bianchi, scarpe e bonetto, camicie e mutande; ci fanno la paga la quale era di 30 baiocchi al giorno (franchi 1,30); ci viene letto un ordine del giorno nel quale ci si raccomandava il contegno da soldati volontari, l'ordine per tutto e la pazienza perché fra qualche giorno si partirebbe. Il giorno appresso ci vengono consegnati i fucili, e così fu compiuto il nostro uniforme, e non ci mancava che di provare il nostro coraggio e fermezza.

Erano le 9 del giorno 17 Luglio: il rullo dei tamburi, lo squillo delle trombe ci annunziano prossima la partenza. Era un affaccendarsi; un tramestio continuo; chi terminava in fretta la parca colazione; altri insaccava l'occorrente biancheria, munizioni, cartatuccie [3], ecc.; chi trafelato correva onde unirsi ai compagni che già s'erano posti in cammino onde non restare indietro. Alle 9 e ½ tutti uniti marciammo difilati al molo, ci fanno imbarcare a bordo di un vascello inglese, il Northumberland [4]. Ma è indescrivibile la nostra gioia e contentezza al veder con noi il prode d'Italia, Garibaldi; egli nuovamente ci esorta al coraggio, alla abnegazione e cordialmente ci saluta, e il suo labbro vien composto ad un sorriso, come quello di un padre che gioisce vedendo i portenti dei suoi figli. Su questo vascello eravamo in 2000, Lombardi, Siciliani, Genovesi, Veneziani, Toscani, tutti giovani pieni di quel santo amor patrio che ci ha sempre condotti alla vittoria.


Carissimo zio [5]

Palermo lì 17 luglio 1860

Gli domando perdono se per qualche tempo ho portato rancore verso dì Lei; si assicuri che fu passeggero, e ora mi pento d'aver così fallato. La ringrazio dei denari che mi regalò ed mio nome lì terrò di conto facendo una saggia economia. Le sue sagge istruzioni mi furono assai care e gli sono tanto grato.
Nel mio nuovo stato mi trovo molto bene: mi sono già assuefatto in tutte le fatiche e non soffro niente. Sono tre giorni che sono a Palermo, ci hanno vestiti e armati e presto partiremo. Il mio vestiario consiste in una bluse e pantaloni bianchi, ghette bianche ed un bonetto consimile a quello della Guardia Nazionale ed il nostro battaglione è in parte armato di fucili tedeschi, parte di fucili inglesi. Nel tragitto sul
Sannon [sic] ho sofferto qualche poco, ma appena posi piede a terra mi sentii bene e mi soccorre un buon appetito e ora mangio per due. Mi riservo ad altra volta raccontarle le mie avventure. La prego di consolare e persuadere la mamma ed il papà, e di far loro vedere che di nulla è a temere, che pongano l'animo in pace. Se desidera scrivermi gli dono il mio addresso: Dossena Michele, soldato. Colonna Cosenz, Battaglione Vacchieri, I° Compagnia (Palermo).


Nella notte dal 17 al 18 ci vien dato ordine di sbarcare e tutti senza fare il minimo rumore, scendiamo sulle numerose barche di quei buoni villici che frettolosi accorrono ad aiutarci; non appena fummo a terra ci ordiniamo, e lasciando a destra San Giorgio prendiamo una strada che saliva il monte. Una compagnia del nostro Battaglione Vacchieri rimane di guardia alle munizioni che dovevano sbarcare sul far del giorno.

La strada era irta e fiancheggiata da folte siepi di fichi d'India, datteri, piante di arancio e limoni che profumavano bellamente l'aria. Dopo qualche miglia fatte su questo monte, sulla cima di esso, noi scorgiamo Patti. Questo è un paese di 7 o 8 mila anime, fabbricato sulla cima di un monte e a guardarlo dalla strada per la quale salivamo ci appariva come un bell'anfiteatro, arrivati colà ci ristorammo di qualche generoso bicchiere di vino e poi proseguimmo la nostra strada per Barcellona distante un 15 miglia da costì.

Durante questo cammino ci siamo rallegrati e pasciuti di uva, pere, meloni, angurie, che ivi erano in quantità; arrivammo a Barcellona sul far della sera in mezzo agli evviva degli abitanti. Barcellona è una città di 12 o 15 mila abitanti, bella e commerciante, pulite e spaziose sono le vie, aventi all'intorno di bei casali; vi si contano molti conventi, uno dei quali ci fu destinato per alloggio. Colà appena giunti ci coricammo su un po' di paglia che ci avevano disposta quella buona gente. Non era per anco spuntata l'alba che ci fanno alzare, e ci fu somministrato un pane, e prendiamo la via di Meris [6].

Dopo sette od otto miglia giungiamo a questo piccolo paese fabbricato sulle roccie di qualche antico feudale del Medio Evo, senza saper nulla sulla nostra destinazione. Facciamo sosta per qualche ora; in questo frattempo si comincia a sentire un frequente cannoneggiamento e già cominciano a comparire alcuni feriti; su quelle fronti pallide eravi scolpita la rassegnazione; quei miseri forse pensavano alla cara madre da loro sì crudelmente abbandonata, ai padre loro, ai fratelli, sorelle lasciati in patria che forse più non rivedrebbero; eppure così avvolti da sì tristi e lugubri pensieri gridavano: Coraggio, compagni! accorrete, la vittoria è nostra. Oh! anime sante! degna progenie di quei Romani che ebbero il dominio del mondo! certo che fino a quando l'Italia avrà tali cuori per campioni, non perirà; voi sarete il modello dei nascituri e da voi apprenderanno quelle gloriose gesta che tanto vi illustrarono. Intanto al cannoneggiamento s'era unita una continua moschetteria; noi volgiamo un'occhiata ai nostri fucili ma sono in ordine: quello che mi manca è il più essenziale: ma il nostro Maggiore Vacchieri fa portare un barile di cartuccie; ciascuno ne prende a piacere, e fanno partire in aiuto dei nostri compagni.

Erano le nove del mattino; c'inoltriamo in una stradicciuola e continuiamo il cammino per una buona mezz'ora. Fra noi regnava un silenzio più che perfetto; ma ecco presentarsi ai nostri occhi una vista tristissima. Durante la strada era un continuo andare e venire di ufficiali a cavallo, ordini, contrordini da ogni parte; molti feriti si trovano per la strada. chi piangeva la morte dell'amico, chi si stava medicando o la gamba od il braccio e di mano in mano traeva profondi sospiri, come se dicesse: Povera madre mia, che cosa penserà di me! Se sapesse che sono ferito, in quali smanie andrebbe, non potendomi soccorrere, assistere! Poi alzava gli occhi al Cielo in segno di rassegnazione, ci osservava e contemplandoci e sforzandosi si alzava e gridava: Viva l'Italia! ma cadeva subito perché la ferita non gli permetteva reggersi e tornava nel primiero sopore. Alla svolta di un casolare ora disabitato vedemmo supini a terra quattro poveri giovani, nuotanti nel proprio sangue; ben si vedeva che erano stati vittima di crudeli assassini, di persone comperate, che soperchiati dal numero furono tagliati a pezzi dai mostri di questi nostri nemici. Uno non gli restava che mezza la nuca; l'altro era squartato e sparse qua e là le sue membra; un altro staccate le gambe dal busto, un quarto tagliato in pezzi. In sulle prime li contempliamo, ma poi inorriditi volgiamo altrove gli sguardi, poiché quella vista ci aveva tutti turbati; non si pensava alla morte, no, ma ai cari nostri lasciati nella desolazione.

Pochi passi avanti troviamo un regio supino a terra colpito da una palla al fronte; alcuno di noi aveva già alzato il ferro vendicatore, ma un sentimento di umanità si impossessò dei nostri cuori, gli volgiamo sguardi di rabbia e di compassione e proseguiamo. Si arriva in un luogo dove più sembrava fervere la pugna; in quadriglia entriamo per una porta a destra e prendiamo terreno; era precauzione lo stare chini affinché le palle ci rispettassero e zuffolando andassero altrove; passati due o tre vigneti ci si affaccia una muraglia oltre la quale stavano i regi che battevano i nostri alla sinistra; zitti ci vien dato ordine di saltare oltre, onde incalzare i nemici al di là del ponte: eseguiamo con rapidità questo movimento e giù a rompicollo sulla strada maestra che conduce a Messina. I regi fuggono passando pel fosso nella lingua di terra tra i canneti, tra la strada ed il mare. Qui due prodi lodigiani vennero feriti, uno nell'occhio destro, l'altro nella spalla sinistra. Ci avanziamo coraggiosi fino al ponte, ma i nemici ci incalzano ed è forza ritirarci, e dove? Era quasi impossibile ripassare la muraglia; indietreggiamo; ma poi come gente disperata che tenta l'ultimo colpo ci avanziamo a testa bassa, facciamo fuggire il nemico e riprendiamo le nostre posizioni al di là del ponte e molestiamo il nemico che si trovava ancora fra i canneti.

Ci ordinano di prendere la sinistra, entriamo in una casa, ci distendiamo in catena per i canneti, e dopo un miglio di cammino arriviamo dinanzi ad una pianura dalla quale si scorgeva Milazzo; a passo di corsa prendiamo terreno e ci avanziamo sotto la mitraglia del nemico sino alle prime case. Appena che esso si accorse della nostra presenza intorno alle mura di Milazzo ci fulminò con una fittissima moschetteria, che fece però poco danno sui nostri. Scaliamo una casa e dalle finestre molestiamo il nemico in città senza essergli dato di offenderci.

Dopo qualche ora il nemico cede e comincia a rinculare; noi gli teniamo dietro ed entriamo in Milazzo e ratti ratti moviamo diffilati alla volta del castello dove il nemico si era rinchiuso. Di là ci molestava un po' troppo sgarbatamente per le contrade quindi noi avanziamo fino al castello, e tra i primi che si presentarono alla porta vi furono dei coraggiosi giovani lodigiani; e di lì unitamente ad altri scalarono la prima cinta del castello e ne presero possesso poiché i regi si erano già tirati alla seconda cinta. Un'altra schiera (tra i quali mi trovavo io pure) si muove rasente il castello, si batte la destra e dopo breve cammino ci affacciamo alla porta d'un convento; quei religiosi ci aprono e ci offrono del pane nero ammuffito con dell'aceto; noi accettiamo poiché eravamo arsi dalla sete ed arrabbiati dalla fame, ed insieme a questo pane ed aceto trangugiamo del vino portatoci da quei borghigiani commossi dalla nostra miseria.

Intanto che noi entravamo dalla sinistra Garibaldi entra dalla destra con gli altri compagni e anche noi corriamo diffilati al Castello per tentare d'impossessarsene; ma tutti gli sforzi furono vani e si dovette accontentarsi e deferire l'assalto a tempo migliore poiché già il sole era sul suo tramonto e tutti eravamo stanchi pel lungo correre e per la battaglia che ci occupò tutta la giornata. Dal convento dove fummo trattati di aceto movemmo per ignoti sentieri fiancheggiati da un'alta muraglia alla volta del castello, un centinaio di passi da esso troviamo una casa abbastanza decente, signorile e bella abitazione. Ci appostiamo presso quella casa e dalla muraglia che ivi era più bassa ci fu facilissimo uccidere le sentinelle che stavano sulle torri del castello per esplorare le mosse del nemico. Abbiamo continuato così per più d'un'ora; finalmente accortosi il nemico della posizione che noi occupavamo, ci diressero qualche bomba. che ad elogio di quei artiglieri ci avevano colpiti nel segno, poiché una cadè sul tetto e l'altra sulla spianata della muraglia senza recar danno ad alcuno.

Intanto erano giunte le sei ore, la moschetteria cessò per parte del nemico; noi pure seguimmo il loro esempio. poiché il sonno e la stanchezza già prevaleva su qualcuno. Cessata era la moschetteria, non però il cannoneggiamento, che durò fino a notte inoltrata; tirarono però così alla ventura poiché il buio della notte non gli permetteva di distinguere gli oggetti né persona alcuna.

Tutta la notte si dovette stare all'erta per non essere sorpresi. Ci recammo sul campo di battaglia, in modo però di essere pronti al minimo battere del rullo od alla chiamata dello squillo. Garibaldi intanto visitava le varie sentinelle, ordinate in pattuglie per esplorare il paese e comandava al genio di sbarrare le contrade che mettevano al castello e di fortificarle: così contento dell'operato e della buona riuscita della giornata, passò la notte pensando all'indomani e ciò che si doveva fare.

Noi eravamo d'avamposti alla casa dei castello, lasciata la guardia in diversi luoghi onde essere sicuri dall'inimico, poscia sfondiamo la porta, entriamo e vediamo tutto in grande disordine, chi corre di sopra, chi visita le stanze terrene, e chi più astuto visita la cantina che raccoglieva ventuna e più botti la maggior parte vino di Marsala da 20 anni, da 15 anni. Vi erano altre qualità come di Cipro, di Calabria, d'Asti ecc. ecc. Prima di far conoscere agli altri la nostra scoperta ne trangugiammo ben bene, riempiti i nostri due recipienti, andiamo a raccontare la bella ventura ai nostri compagni che tutti corrono, disputandosi fino l'entrata, tutti ne bevettero a piacimento di quel superbo vino e ne portarono con loro quanto poterono. Così ristorati ci sdraiamo sulla terra a cercare nel sonno un riposo al nostro corpo che tanto ne aveva d'uopo per le grandi fatiche e strapazzi della giornata; ma neppure quella notte si dormì, poiché anche in sogno chi s'alzava, prendeva il fucile, fuggiva, strepitava, poi ricadeva nel primiero sopore. Altri gridava, fuggi; arrenditi! ammazzalo! tutte frasi interrotte che erano riproduzioni delle fatiche e fatti sostenuti della terribile giornata.

Così ebbe termine il giorno 21 luglio 1860; giorno sacro per tutti noi che ci rammenterà sempre le fatiche e le gesta divise col prode nostro Generale Garibaldi. Questa Battaglia fu in piccolo un Solferino pei risultati che in questa si ebbero, per la posizione e le forze assai superiori alle nostre (8000 contro 2000) che ci hanno dato da lavorare a tutti e ci tennero occupati tutto il giorno. Il nemico si distendeva sullo stradone di Messina, poscia si avanzava fino a tanto che le loro avanguardie si scontravano colle nostre; e qui succedeva un combattimento micidialissimo per ambe le parti. Lo stesso Garibaldi, con dieci altri combattenti si trova circondato da un immenso stuolo di cavalleria che lo minacciava da ogni parte. Sfortunatamente gli venne ucciso il cavallo sotto ed egli a piedi col suo revolver nella sinistra e la sciabola nella destra, menava colpi in ogni senso, ne uccise due con la sciabola con una puntata al cuore ed alla testa, col revolver ferì vari e così cogli altri campioni che erano seco lui gli venne fatto di sbarazzarsi da quel nemico che sì destramente l'aveva attorniato.

Cacciamo il nemico dalla strada di Barcellona e gli togliemmo un pezzo d'artiglieria con munizioni e poscia ci venne fatto di prendergli i fucili e di cacciarlo anche dallo stradone di Messina e confinarlo tra essa ed il mare, e qui i prodi siculi gli presero un secondo pezzo d'artiglieria. Allora vedendosi perduti non più a lungo resistono, cedono e cominciano la ritirata dalla sinistra poscia cedono il centro e la destra e si rinchiudono nel castello. Intanto che noi prendiamo possesso della città. Cosi ebbe fine questa memorabile giornata di Milazzo, che è da tutti ricordata con stupore a gloria pel valore e coraggio spiegati da Garibaldi ed i suoi prodi nello sconfiggere tali e tanti nemici. Durante la notte si formarono barricate per le contrade e si appostarono opportunamente le artiglierie. Allo spuntar dell'alba si comincia ancora per parte del nemico il cannoneggiamento senza recarci nessun danno. Fu il frutto della vittoria di Milazzo la resa di Messina, che seguì a questa di sei o sette giorni.

All'indomani tutti sono sotto le armi. Garibaldi ci passa in rivista, si congratula seco noi della gloriosa giornata. ci loda dello spiegato valore e fermezza e ci anima ad altre imprese; poscia si passò tutto quel giorno non intenti ad altro che a sbarrare contrade e a fortificarci. Al dopo pranzo ci venne portato il pane ed il rancio che fu da noi in un momento divorato tanta era la nostra fame. I feriti parte erano stati mandati a Barcellona e a Mery ed in parte a Milazzo dove erano quei buoni borghigiani che prestarono loro tutte quelle cure che si richiedevano e che si potevano fare fra più stretti congiunti.

Passato questo giorno più quietamente dell'antecedente ci sdraiammo sul lastricato della Chiesa posta sulla gran piazza che guarda il mare e ci svegliammo di buon mattino onde attendere ai nostri interessi particolari.

Impratichitici un poco del paese ci ponemmo a dar la caccia ai polli, galline e poscia le cucinammo alla meglio con quel poco di condimento che ci fu dato di ritrovare e così gli abbiamo mangiati allegramente, cantando e bevendo, contenti della nostra sorte. Sul dopo pranzo arrivarono dei nuovi volontari a bordo di un vascello inglese, che furono da noi accolti con grande festa. Il cannoneggiamento era cessato per parte del nemico e solo qualche colpo si sentiva qua e là per tenerci svegliati e dar prova di loro esistenza. Sull'imbrunire ci venne ordinata una pattuglia intera al forte che durò due ore, e poscia dormimmo pacificamente fino al giorno appresso.

Appena alzati demmo principio alla solita caccia che tanto ci dilettava e così ci siamo procurati un altro pajo di polli, che sebbene magramente cucinati servirono benissimo al nostro appetito.

Al dopo pranzo batte la generale e il nostro battaglione è destinato d'avamposto al castello; ci mettono in marcia attraverso il monte dalla parte del mare e dopo un'ora di cammino arrivammo al luogo. Era un piccolo spianato posto quasi sulla sommità del monte di dietro al castello, e noi eravamo coperti da questo da una muraglia che saliva sul monte e segnava la divisione delle diverse proprietà, e da un alto scoglio dello stesso monte qua a là sorgevano grassi e fronzuti olivi e la riva era ornata di fitti filari di fichi d'India d'enorme grossezza e grandezza, ed arance grosse, che di giorno servivano egregiamente a ripararci dai cocenti raggi solari.

Erano le 7 della sera del giorno 23. Si mettono tre fazioni e poscia ognuno cena e pensa a cercarsi un luogo pel riposo; tutti fanno a gara a rubarsi un posto, un buco, una caverna, uno s'arrampica sugli olivi e così sotto i rami si forma un letto non troppo soffice, ma che però serviva benissimo almeno a ripararsi dall'umidità della terra, e quello che più importava dalla punta dei sassi de' quali era pieno il monte. Così altri colle foglie dei fichi d'India disposte in ordine si combinarono de' letti onde passare meglio la notte. Tutti si univano attorno al fusto di qualche grossa pianta e così coperti della parte dei rami si riposava apparentemente più bene. Il nostro maggiore Vacchieri cogli uffiziali eransi ricoverati in una torre tutta diroccata, avanzo di qualche feudale su foglie di ulivo fatte portare appositamente dai soldati; così si passò la notte tranquillamente tutti imbacuccati nelle nostre blouse poiché la notte era alquanto fresca.

Appena sorta l'alba tutti si alzarono e prima nostra cura fu quella di rinfrancare le dondolanti capanne, se pure erano tali, affinché il sole non penetrasse a infastidirci; poscia si pensò a far colazione. La caccia non poteva aver luogo, essendo tutti luoghi disabitati. Si dovette pensar il modo di supplire onde saziare la fame: dopo non lungo cercare ci vien dato di trovare dei vigneti: in un momento sono inondati da una turba di affamati. Il nostro Maggiore manda pel rancio, ma questo non si può avere che sulla sera; appena questo arrivato si taglia a pezzi il manzo e si fa cuocere, e con esso pure la pasta per minestra ma le 10 suonarono e niente era all'ordine, quindi chi stanco d'aspettare si addormenta, chi affamato aspetta pazientemente questo rancio. Appena che è fatto lo si mangia con grande avidità, sebbene assai cattivo ed un'ora dopo tutto ritorna nella primitiva quiete, e non si sentiva che il camminare lento della sentinella che vegliava per la nostra sicurezza. Cosi passarono altri quattro giorni d'avamposto; il secondo si trovò una fontana onde attingere acqua; nel terzo si trovarono dei frutti e così si rese meno dura la nostra permanenza colà.


Mia cara Mamma

Milazzo, il 24 Luglio 1860

Quando meno me lo credeva dovetti partire. Mercoledì 18 Luglio alle 9 della mattina ci imbarcammo su un vapore inglese con Garibaldi e con due fregate di sostegno, diretti, si diceva, per la Calabria. II vapore costeggiò sempre la Sicilia e alle 2 o alle 3 di notte il vapore si fermò e tutta la truppa sbarcatasi s'avviò alla volta di Barcellona e di là a Milazzo piazza forte occupata dai Napoletani; la mia squadra restò di custodia alle munizioni e sino alle nove ore del mattino di Giovedì restammo a Patti, poscia partimmo per Merri dove passammo la notte in un convento e alle 5 di mattina del giorno 20 si dovette partire per Barcellona onde raggiungere Garibaldi col resto della truppa che consisteva in 5 o 6 mila uomini. Verso le 11 ore arrivammo al luogo del combattimento. Non ti so descrivere il ribrezzo che mi fece vedere i nostri feriti e morti, uno con squarciata la pancia, un altro il petto, un altro con via il capo, insomma era una cosa orribile; io li guardava e pensava che forse un'egual sorte mi attendeva. Intanto le fucilate, le cannonate si sentivano fischiare sul capo, davanti, di dietro, in tutte le direzioni. Il nostro Battaglione Vacchieri doveva sostenere la desta in catena e sorprendere il nemico; entrammo in una casa, passammo nell'orto e a ginocchioni passammo due, tre e quattro campagne d'uva, di ulivi e vigneti; finalmente arriviamo ad una muraglia oltre della quale il combattimento ferveva ancora ben nutrito. Cingia ci comanda di saltare oltre quell'alta muraglia e sotto il fuoco dei cannoni, della mitraglia e delle fucilate saltammo oltre e mentre si faceva questo uno della mia compagnia fu ferito da una palla in un occhio e cadde stramazzoni al suolo gridando viva l'Italia! Questi è un certo Poiaghi Venanzio.

Appena saltati oltre si dovette porre in fuga i Napoletani e prendere d'assalto il ponte. Infatti i Regi vennero respinti e noi ci aggruppammo tutti intorno al ponte per offendere e non essere offesi; qui fu ferito nel collo il mio amico Vanazzi.

Garibaldi a piedi sempre davanti percorreva il campo di battaglia incoraggiandoci; vennero presi al nemico tre cannoni. Preso il ponte il nostro Battaglione doveva impossessarsi di una casa occupata da Napoletani per proteggere l'entrata di Garibaldi alla destra. Dopo aver molto e molto corso attraverso vigne e pronti sempre ginocchioni per ischivare le palle che fischiavano appena sopra di noi, arrivammo alla muraglia della casa. Là noi facevamo qualche fucilata per rispondere al nemico. Dopo un'ora i Napoletani vedendo inutile ogni sforzo fuggirono, e noi dietro per inseguirli ma si rifuggirono nel Castello, di là ci fulminavano a cannonate. Col mio Battaglione ed altri due entrammo vittoriosamente in Milazzo dalla parte opposta di Garibaldi e ci addrizzammo subito al castello. Là arrivati cercammo atterrare le porte ma inutilmente; finalmente si riesce ad entrarvi dalla parte del giardino e così venne occupato il primo posto del castello. Di là ci si mosse a prendere una chiesa piena di Regi e con molto sangue venne anche questa in poter nostro e con questo fatto ha fine la famosa giornata di Milazzo, che durò dalle 7 e ½ della mattina sino alle del dopo pranzo. Io sono stato illeso e sto bene anche di salute. Ora sono d'avamposto al castello. Dei nostri si contano quasi 500 feriti con molti morti. Il comandante dal castello chiese un armistizio di un giorno e mezzo e venne concesso; cercò di sloggiare con armi e bagaglie, ma Garibaldi non lo permise.

Ieri sera comparvero in porto quattro fregate napoletane, una francese, un'altra inglese e combinarono che i Regi sloggerebbero oggi dal Castello i soldati tutti disarmati e solo gli ufficiali colla spada.

Ecco che ti ho dato ragguaglio di tutto.

Spero che tutti sarete sani e contenti: ti prego di salutare tanto la Mamma e Papà G., il Papà Costante, Giovanni, e tutta la famiglia. Spero che ti sarai pacificata e sarai contenta. Saluta tutti i zii e zie e amici, e dandoti un tenero bacio ed abbraccio sono il tuo Michele.

Addio.


Cosa si facesse e si pensasse nella Cittadella di Milazzo nessuno lo sapeva e neppure poteva immaginarsi l'intenzione del Generale Garibaldi. Si temeva d'un assalto notturno per parte del nemico ed a nostra difesa si erano erette delle barricate a tutte le strade che conducevano al Castello e così si sembrava più sicuri. Un piroscafo senza bandiera era comparso nella acque di Milazzo, esso dicevasi tenesse a bordo dei volontari e munizioni, d'improvviso, molti colpi partono dalla Cittadella diretti sul vascello ma per fortuna colpì nessuno, finalmente inalberata la bandiera inglese si cessò dal tirare e noi accogliemmo i sopraggiunti con grandissimo piacere.

Fra noi si vociferava d'armistizio, di pace, di resa, ma erano tutte voci inconcludenti, senza nessun fondamento. Dicevasi pure d'un parlamentario spedito da Bosco a trattare col Generale, ma di certo nulla si poteva sapere. Quando all'alba del giorno 26, pel Castello si vede un andar e vieni di soldati tutti vestiti, armati e giulivi, non si sapeva che pensare, si dubitava d'una qualche trama ma i nostri timori si dissiparono e svanirono allorquando vedemmo a comparire sul golfo delle fregate Francesi, Inglesi, Sarde e Napoletane e con gioia si andava fra noi facendo delle induzioni il perché di quella strana comparsa. Verso le otto antimeridiane si batte la generale e Garibaldi ci passa in rivista, poi una parte dei nostri vengono condotti con nostra meraviglia alla strada che conduce al Castello. Colà giunti si stendono in cordone dal forte fino al mare dove erano moltissimi canotti e scialuppe. Allora s'indovinò il perché di tanti movimenti e giulivi di attendere il momento di vedere la ritirata dei prodi di Bosco. Il Generale Bosco con tutta la sua marmaglia di stato maggiore passò a bordo di una delle fregate (che erano in numero di 10) in mezzo ai fischi della popolazione e alle nostre risa. I Cacciatori tengono dietro al loro Capo e tutti armati sfilano in mezzo a noi e ai borghigiani corsi per vedere il bello spettacolo. Poscia subito dopo tengono dietro loro tre reggimenti di linea, la cavalleria, i mulattieri etc., in tutto 8 mila uomini armati con 10 cartuccie per soldato.

Noi contemplavamo tutti silenziosi e i borbonici passando ci facevano il viso cagnesco gettandoci come si dice il guanto di sfida per Messina; noi rispondevamo loro con delle risate ed in questa occasione ci venne improvvisata un'allegra canzone contro quei testoni. Verso le tre ore dopo mezzodì l'imbarco termina e tutto sparisce dalle acque di Milazzo, e noi restammo in poter del forte, delle munizioni ed artiglierie, muli e cavalli e tutto ciò che in quello trovavansi. Così 8.000 uomini armati passarono in mezzo a poche centinaja di volontarj senza fare il menomo moto tenendo sempre la nostra destra della quale non avevano tanto da dir bene che già l'avevano esperimentata abbastanza.

Tutto il resto del giorno lo si passò in allegria lieti del risultato della giornata ed ancora più lieto poiché si diceva vicina la partenza per Messina, ma nessuno però s'immaginava la cosa sì bella come era stato convenuto col nostro Generale. La notte si dormì come al solito sulla spiaggia a contemplare la stellata soffitta del nostro appartamento e lieti ci addormentammo perché nuove cose ci aspettavamo il dì seguente.

L'alba del giorno 29 era sorta. Il battaglione presso al paese venne fatto sfilare sulla piazza e impostate le quattro compagnie con volontarj Cremonesi giunti il giorno prima. Due ore dopo giungeva l'ordine di partenza. La brigata nostra si mise in moto alla volta di Messina; da tutti si credeva dovessimo prenderla d'assalto ma ci rassicurava alquanto il non aver con noi quei pochi pezzi d'artiglieria di cui andava fornita la nostra armata. Lungo la strada trovammo il luogo di dolorosa ricordanza per noi, poiché molti cari suggellarono nella terribile giornata del 20 Luglio la patria libertà, si osservava con ribrezzo quei luoghi ove tanti prodi erano stati vittime delle atrocità Borboniche. Giunti a tre miglia da Milazzo prendemmo la sinistra. Si marcia allegramente fino a Spadafora. Erano le dodici, si provvede la carne, della pasta e ognuno pensa a soddisfarsi perché si era ancor digiuni dal giorno antecedente. Gli abitanti di Spadafora allegri Borghigiani ci accolgono festevolmente e vanno a gara ad offrirci del pane e vino.

Ma già i bidoni bollivano e la carne era quasi alla sua perfezione e noi avidi si aspettava con ansietà il momento di mangiare; e tutti d'intorno facevamo fretta ai rancieri che già satollati alle nostre spalle non si prendevano nessuna premura. Le due erano suonate, il bollito era all'ordine, ma all'improvviso s'ode a battere la generale e Medici stesso ci rintuzza comandandoci prontezza. Maledicendo il caso, si lascia molto a malincuore il nostro posto, prendendo in quella vece fucile e sacco ed ognuno si pone in via per Messina. I rancieri nelle confusioni sono sempre i fortunati; essi vendettero la carne e ben pasciuti e contenti raggiunsero il corpo il giorno addietro. Si marciò tutto il resto della giornata quasi digiuni. Era già sera fatta e giungemmo a Gesso, città posta a 9 miglia da Spadafora su una montagna. Femmo sosta per pochi minuti e così un poco riposati di nuovo ci mettiamo in viaggio, il cammino cominciava da scabroso a farsi diffcile, poiché di notte su montagne ripidissime e stanchi come eravamo noi era cosa si lieve il continuare la marcia.

Bello era a vedersi il creato in quel momento: se alzavi gli occhi ti appariva l'immensità dei Cieli sfolgoreggianti di lucide stelle, se abbassavi lo sguardo, orribile contrasto! profondi burroni, montagne che maestosamente s'ergevano a picco innanzi a te e sembrava volessero precipitare, l'oscurità la più profonda accompagnata dall'orridezza naturale dei luoghi rappresentava all'occhio dell'osservatore un quadro veramente tragico, si temeva sempre di precipitare in qualche abisso. La strada che noi tenevamo era rasente al muro e saliva sempre tortuosamente stretta e mal formata, di mano in mano si aumentava in noi il timore di cadere: da un lato ti si ergeva altissimo monte, dall'altro continui precipiti, oscurità fittissima che non lasciava distinguere oggetto alcuno. In quei orridi luoghi non si vedeva anima vivente né casupola alcuna che indicasse un'abitazione. Tutto d'intorno tenebre e silenzio. L'upupa, la civetta il gufo essi pure tacevano la loro monotona cantilena, confusi dalla nostra improvvisa comparsa. Nessuno di noi cantava, le nostre menti erano ben d'altro comprese. Si contemplava silenziosi il creato ed in secreto si applaudiva a quell'Ente che tutto dispone; d'altronde poi la stanchezza, la fame fortemente si faceva sentire in noi. Per più di tre ore si camminò su e giù per monti senza sapere quale direzione fossimo per prendere. Ora poi qui il panorama cambia veduta, vi regnava ancora la stessa oscurità ma i monti li avevamo a tergo, e noi si continuava a scendere. Il cielo si era annuvolato e la bionda luna si era ascosa dietro, biancastre nubi si stendevano su di un immenso piano azzurrognolo che confondevasi col piano sottostante, sull'estrema punta un chiarore insolito stendeva la sua luce benefica tremolando sul mare unica direzione ai naviganti di notte. Marciammo fino alle due di notte, e qui ci vien ordinato di fermarci. La strada cominciava ad essere più larga, ci sdrajammo affranti su quella, e ci addormentammo senza sapere dove fossimo e dove si trovava il nemico.


Cara mamma

Messina li 3 agosto 1860

Questa mattina ho ricevuto una cara tua; non puoi immaginarti il piacere che mi fece nel leggerla, nel sentire vostre nuove dopo molti giorni di silenzio; ma fui sgraziato, questo dopo pranzo polleggiando l'ho perduta né mi fu dato di ritrovarla.

Forse avrai ricevuto la mia lettera in data di Milazzo dove ti descriveva tutta la battaglia; quattro giorni dopo una nave napoletana con altra Inglese e Francese compajono nel Porto; si venne ad una convenzione con Garibaldi e si pattuì che i Napoletani sgombrerebbero dal Forte lasciandoci però tutti i cannoni e munizioni. Il giorno addietro infatti il Generale Bosco con la sua truppa s'imbarcò e lasciò città libera. La mattina seguente tutta la nostra truppa parte da Milazzo e cammina contro Messina. In quel solo giorno abbiamo fatto 35 e più miglia a pancia asciutta, siamo arrivati a Messina stanchi ed affamati; erano le 11 di mattina. gli applausi, i fiori che ci cadevano sopra erano un'infinità, si andava in un caffè, tutto era pagato, in una locanda tutto era pagato e così continuò per un giorno; qui noi siamo molto ben veduti più che a Milazzo.

Noi ci leviamo alle 4 e ½ della mattina: dalle 5 alle 7 abbiamo esercizio, dalle 7 alle 8 pulizia, dalle 8 alle 11 sortita libera, dalle 11 ad un'ora la lettura dei regolamenti e dell'ordine del giorno; alle 2 e ½ il rancio che consiste in carne, minestra, vino e pane; dalle 2 e ½ alle 5 libera sortita; dalle 5 alle 7 manovra; dalle 7 alle 9 sortita; alle 9 riposo; alle 10 silenzio. Ogni cinque giorni ci danno 20 bajocchi di paga che sono 20 centesimi al giorno, ossia 4 bajocchi.

La mia salute è sempre buona e spero vorrà sempre continuare così. Sono già cinque giorni che mi trovo in Messina: ora si aspetta di partire per la Calabria o per Napoli, e di lì attraverso la Romagna veniamo a casa.

I Napoletani al nostro avvicinare a Messina si sono ritirati nella cittadella, e pare che si preparino a sloggiare anche da quella. Qui dei nostri vi saranno un 20 mila soldati senza quelli che sono avanti e indietro, che sono a Palermo, a Siracusa, a Catania, a Trapani etc.

Io mi trovo meglio a Messina che non a Palermo sebbene tanto qui come là non si trovino locande dove si faccia da mangiare. Messina è ricca di bellissimi monumenti fra i quali il Palazzo di Città, il Duomo etc. Vi è pure un bel porto; alla marina si osservano una quantità di magnifici edifizi, e dicontro a questi vedesi la cittadella che sembra veramente inespugnabile.

In quanto a Francesco Grecchi non posso dirti altro che sta bene, é grasso e se la passa discretamente; da prima era nel mio corpo, poi è andato in quello dei Bersaglieri con Belloni, Agnelli, Biancardi, Cairo Sante ed altri di Codogno che sono tutti in perfetta salute; l'altro giorno li ho veduti ed andavano a cercare un nuovo corpo perché quello non piaceva loro e non so ancora niente. Mi ha fatto dispiacere che Tommaso sia pure soldato; domani faccio conto d'andarlo a ritrovare.

Quando mi scriverai porrai questo indirizzo:

A Dossena Michele Milite del 11° Reggimento 1° Battaglione 1° Compagnia Divisione Medici - Messina.

Ti prego di salutare e baciare il Papà Costante, Giovanni e tutta la famiglia, non che la Mamma G. e Papà Grande, Zii e Zie, la Sig.ra Angiolina Carpani, la Sig.ra Marietta Grecchi, Marco, Biagio Goldaniga, insomma tutti.

Rinnovo i baci a tutta la mia famiglia e in special modo al Papà e a Costante, e dandoti un tenero bacio ed abbraccio sono

Il Tuo Caro Michele

Al Papà scriverò altra volta, così alla Mamma e a Papà G. perché il tempo mi manca.

Addio, addio, o cara Mamma, fra tre o quattro mesi forse ci rivedremo. Addio.


Ero in fazione alla porta di Caiazzo che dava sulla strada che conduce a Benevento. Le 11 antim. erano battute all'orologio della parrocchia, da lungi si udivano gridi di gioia e spesso si sentiva ripetere confusamente: viva lo re, viva lo re. Erano i Regi che stavano a poche miglia da noi in un convento di Monaci al piè del monte (Caiazzo è sulla cima d'un monte). La causa di quelle strane grida era prodotta dall'arrivo di 8 mila Regi venuti in soccorso dei 20.000 per attaccarci e riprendere le posizioni. Ad un tratto la fazione posta sulla torre grida all'armi; tutti s'alzano, lasciano in disparte e pane e rancio, preso il fucile, ci mettiamo sulle difese ed attendiamo con impazienza fuori della città sulla strada Romana il nemico che s'avanzava rapidamente. Intanto ciascuno s'apparecchiava; chi caricava il fucile, chi terminava un tozzo di pane, chi si metteva il soprabito e chi cercava di prendere coraggio per l'imminente periglio. Non era scorso un quarto d'ora che panf penf si sentono le prime fucilate degli avamposti, questi subitamente rinculano ed unitisi agli altri (1000 fra tutti) ci distendiamo in catena e s'incomincia un fuoco vivissimo da ambe le parti. Noi eravamo quasi sprovvisti di munizione e le nostre giberne erano quasi vuote, ciò non ostante non conoscendo il numero del nemico ci azzardiamo, e fuori due Battaglioni sostengono con mirabile freddezza due ore di fuoco che per parte del nemico era vivissimo; ma terminata la munizione che fare? si grida alla baionetta e le voci di Savoja Savoja si sentono echeggiare ovunque, il nemico pare rinculare, ma invece apre le sue file e si avanza uno squadrone di lancieri e spazzano la strada a questi seguita la mitraglia e noi siamo costretti a ritirarci vicino al paese e un altro battaglione viene in nostro aiuto; si fa ancora qualche colpo, poi di nuovo la bajonetta fa il suo ufficio, ma la solita manovra ci fa indietreggiare di nuovo.

I feriti aumentavano sempre e di morti ve n'erano in gran numero. Il nostro bravo Colonnello Vacchieri che comandava il Reggimento vuol tentare un ultimo sforzo, fa uscire tutti e insieme caliamo alla bajonetta; la mitraglia ci accoglie poco favorevolmente, due squadroni di cavalleria prendono il largo e ci fanno sparpagliare un qua un là, il Colonnello comanda la ritirata. I Regi già ci avevano cinto d'intorno e non ci restava che un piccolo sentiero pel monte sola nostra salvezza, prendiamo quella via e giù a rompicollo pella collina; dopo un'ora di cammino arriviamo al fiume Volturno; ci gettiamo dentro e tentiamo passarlo a guado, parte annegarono miseramente, parte arrivarono di là con un filo d'anima in corpo che potevano appena appena reggersi sulle piante. Otto robusti giovani prendono il nostro povero Colonnello su due fucili e guadano il fiume. A mirare quel povero uomo sì avvilito bisognava piangere per forza, egli piangeva, al pianto subentrava il riso, andava in deliquio, ora cadeva a terra come morto. Lo si mette in una barella e lo si trasporta sino a Madalloni per essere sicuro dai Regi che ci seguitavano. Noi pure mezzi scalzi ed ignudi ci portiamo a Madalloni distante 10 o 12 miglia da quel luogo.

In questo combattimento che durò per 6 o 7 ore si ha da piangere la morte di varj prodi giovani Lodigiani, i feriti ed i molti prigionieri che rimasero nelle loro barbare mani.

* * *

Sanr'Angelo è posto a cavallo di un monte dello stesso nome, è un piccolo paesetto d'un seicento abitanti, davanti alla chiesa havvi una spianata dalla quale si domina il sottostante terreno fino a Capua; su questa spianata noi ci avevamo 4 pezzi con discreta munizione. Ai piedi della collina noi eravamo accampati a fianco della strada che da S. Angelo mette a Capua e che giunta ai piedi della collina si biforca, e a sinistra va a Santa Maria; e a destra scende lungo il Volturno.

Era un'ora di notte del giorno 1 Ottobre, tutto taceva, intorno a noi non si sentiva altro che il rumoreggiar delle foglie spinte dal vento; noi dormivano dalle dieci; tutto d'un tratto l'allarmi della sentinella ci desta e subito siamo in piedi. Erano i Regi che approfittandosi della notte cercavano far girare il centro oltre il fiume e serrarci coll'ala destra; siamo in aspettativa di ordini, ma passano due ore e niente di nuovo succede, e parte dei nostri si erano nuovamente addormentati. Quando verso le 4 e ½ cominciano la fucilate degli avamposti e mano mano si facevano più vicine. II generale Garibaldi col suo stato maggiore passa davanti a noi e il nostro duce passandoci davanti coll'amicar degli occhi ci incoraggiò alla pugna che in quel giorno sembrava dover accadere; una mezz'ora dopo infatti si parte; arrivati al punto dove la strada si divide, prendiamo attraverso ai campi la sinistra e ci spingiamo oltre gli avamposti dove il fuoco e il pericolo ci sembrava maggiore. Passarono due ore continuando a far fuoco un poco ritirandoci un poco avanzando, finalmente un imprevisto ajuto del nemico di un gruppo di cacciatori ci fa rinculare di qualche poco, ma poscia prendiamo la rivincita il nemico si ritirava sempre sebbene superiore di gran lunga, per trarci in inganno intanto stendeva le sue colonne contro la nostra destra per tagliarci fuori ma noi intendiamo la sua manovra e parte si spinge sulla colonna che marciava a destra e vi porta la confusione. Frastornato il nemico nei suoi bei disegni ci catena in massa, ma noi sosteniamo l'urto e restiamo di sasso al nostro posto, ma la cavalleria viene a disturbarci e contro questa bisognava ritirarci poiché per la poca disciplina che regnava fra noi era impossibile ottenere una salda difesa in quadrati contro la cavalleria nemica. Ritirandoci ci difendiamo sempre e arrivati ad una casa campestre femmo sosta e ci disponemmo alla difesa; per un'ora ci fermiamo colà, ma il nemico vedendo non poterci snidare rafforza la sua sinistra e la spinge con due altri reggimenti contro la nostra batteria piantata a fianco della strada di Capua, allora noi, ci distendiamo in catena dalla casa alla batteria e ci battemmo così per due ore sempre riparati dalle piante, e intanto l' artiglieria ci sosteneva colle sue numerose scariche. Il nemico vedendo qui pure un'ostinata resistenza pianta una batteria contro la nostra e ci fulmina fortemente. In questo caso quante vite furono troncate di giovani prodi, quante madri dovettero piangere i figli. Allora noi ci ritiriamo dentro la barricata che proteggeva l'artiglieria e là perdurammo per ben 3 ore di fuoco continuo. Due Maggiori ed un Colonnello d'artiglieria vi perdettero miseramente la vita dando esempio di magnanima virtù patria. Alme di eroi, l'Italia ve ne sarà riconoscente della vita per lei miseramente immolata.

Il nemico non potendoci vincere ricorre agli inganni e vestì alla meglio uno dei battaglioni cacciatori alla garibaldina affinché potessero inoltrarsi nel nostro campo e toglierci la vittoria. Diffatto noi vedendo da lungi questi berretti rossi ci astenevammo dal tirare credendo fossero dei nostri, ma invece la nostra sorpresa fu grande quando questi avvicinatisi ci salutarono con una repentina moschetteria; allora noi tutti ardemmo di sdegno e li abbiamo accolti come si meritavano, caliamo alla baionetta e mettiamo in fuga quella marmaglia. Allora frastornato ovunque il nemico pensò avvilupparci per ogni dove e ...

A questo punto l'autore per motivi a noi sconosciuti cessa il suo dire. Egli si riservava forse, in seguito, di riprendere e ultimare il lavoro, ma occupazioni più importanti glielo vietarono.


[1] - Per ulteriori informazioni sulla spedizione dei volontari lodigiani si veda il libro I Lodigiani nella guerra del 1860, pubblicato su questo sito.   <<

[2] - Note biografiche del Tenente Generale Commendatore Dossena Ing. Michelangelo in Archivio storico per la Città e Comuni del circondario di Lodi - Anno XLIII (1924), N. 1°.   <<

[3] - Non si tratta di un refuso tipografico ma di un sinonimo di cartuccia usato specialmente negli anni successivi alle guerre napoleoniche e probabilmente già desueto all'epoca del Dossena.   <<

[4] - Tutti gli altri autori dicono invece che il vascello si chiamava City of Aberdeen.   <<

[5] - Si tratta certamente di suo zio Tiziano Zalli.   <<

[6] - Si tratta del paese di Merì che il Dossena chiama anche Mery e Merri.   <<


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