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La cattura della spedizione Corte


La spedizione Corte

I tre vapori che dovevano portare Medici ed i suoi uomini in Sicilia vengono acquistati da una compagnia francese ma i volontari disponibili sono di più di quelli che possono portare i tre vapori, così si decide che i 900 volontari rimasti, posti sotto il comando di Clemente Corte, sarebbero stati trasportati tramite l'Utile che aveva già portato in Sicilia la spedizione Agnetta.

Non potendo imbarcare più di un centinaio di volontari l'Utile rimorchiava il clipper americano Charles Georgy con a bordo i rimanenti ottocento tra i quali gran parte di quelli che erano stati sbarcati a Talamone per partecipare alle diversione nello Stato Pontificio e che avevano chiesto ed ottenuto di essere arruolati con Corte.

Il motivo di questa richiesta era che sapevano che l'Utile partiva prima. In realtà l'Utile partiva prima solo perché era più lento ed il piano era che si ricongiungesse ai vapori partiti dopo di lui a Cagliari per poi proseguire assieme verso la Sicilia. L'8 giugno quindi l'Utile, trainando il Charles Georgy, salpava da Conegliano con a bordo complessivamente 900 volontari al comando di Clemente Corte ma che dovevano poi riunirsi con quelli della Spedizione Medici della quale facevano parte.

Il comandante della spedizione, Clemente Corte, viaggiava sul Charles Georges che batteva bandiera americana ed il cui capitano era Enrico Wathson mentre sull'Utile, che batteva bandiera sarda, il comandante era Natale Poggi. Alla mattina del nove giugno, però, le due navi erano catturate da delle fregate della marina borbonica e portate a Gaeta.

La cattura della spedizione Corte e gli avvenimenti seguenti sono narrati in un diario di un milite garibaldino che si trovava a bordo del clipper e che è stato pubblicato sul giornale di Genova L'Unità Italiana [1] subito dopo lo svolgersi degli avvenimenti stessi.
Purtroppo non sono ancora riuscito a trovare e a leggere questi scritti ma un ampio riassunto degli stessi è contenuto nel poderoso libro su Garibaldi scritto da Antonio Balbiani [2] che riporto integralmente qui sotto.

Tra coloro che fanno parte della spedizione Corte vi è anche Alberto Leardi che era stato ufficiale dei Cacciatori delle Alpi ed il cui destino sarebbe poi stato quello di morire in combattimento a Milazzo. Per giungere a Milazzo ed al suo destino, però, Alberto Leardi ebbe una serie di ostacoli veramente incredibile.

Omero o Virgilio ne avrebbero ricavato un poema dove una divinità a lui favorevole tentava in tutti i modi di strapparlo al suo Fato ineluttabile mentre uno scrittore di fantascienza scriverebbe di un viaggiatore del tempo che torna dal futuro per cambiare il destino di Alberto Leardi ma, ad ogni cambiamento, lo storia si riassesta ed il suo destino finale continua a rimanere il medesimo.

Infatti Alberto Leardi parte il 5 maggio da Quarto con i Mille, il 7 maggio a Talamone viene aggregato alla 8a compagnia di Zambianchi che deve tentare una diversione negli Stati Pontifici, il 19 maggio partecipa ad uno scontro a fuoco con i gendarmi pontifici dopo il quale Zambianchi decide di rientrare in Toscana, il 20 maggio depone le armi e viene lasciato libero, si reca a Genova dove, l'8 giugno, si imbarca con la spedizione Corte, il 9 giugno le navi della spedizione Corte sono catturate dai borbonici e condotte a Gaeta, il 29 giugno i vascelli sono lasciati liberi di ripartire purché non si rechino in Sicilia, il 9 luglio Alberto Leardi sbarca a Genova, il 15 luglio s'imbarca sull'Amazon diretto a Palermo, il 18 luglio entra in porto mentre Garibaldi ne sta uscendo sulla City of Aberdeen, Garibaldi fa imbarcare sulla sua nave anche i volontari giunti sull'Amazon e tutti sbarcano a Patti, il 20 luglio Alberto Leardi partecipa alla battaglia di Milazzo dove cade colpito da una palla in fronte.

Il racconto della cattura (dal libro di Antonio Balbiani)

I vapori, acquistati dai signori Finzi e Mangili a Marsiglia, gettarono verso i primi di giugno l'ancora a Genova. Due fra questi, l'Helvetie e l'Oregon (il primo de' quali issando bandiera americana assunse il nome di Washington), si fermarono a Genova: il terzo partì per le acque toscane ove un corpo di 800 uomini lo attendeva con Malenchini a Livorno.

I preparativi per la partenza si fecero colla massima celerità: se non che l'affluenza dei volontari era tale che i legni acquistati non bastarono a condurli in Sicilia. In conseguenza si noleggiarono un clipper americano, il Charles Georges ed il piroscafo l'Utile che dovea rimorchiarlo.
Questi ultimi furono i primi a salpare: essi presero il largo la mattina dell'8 giugno nelle vicinanze di Cornegliano con altri 900 soldati. Il mattino del 10, furono seguiti dal l'Oregon e dal Washington che lasciarono Sestri, con circa 2500 tra volontari ed ufficiali.

Alle otto mattutine del giorno seguente 9 giugno, due legni napoletani da guerra, l'Ettore Fieramosca ed il Fulminante, raggiunsero il clipper e l'Utile mentre questi, girando il promontorio Côrso, veleggiavano verso le acque toscane. Nell'avvicinarsi, i due legni borbonici innalzarono il grido di viva Garibaldi e l'Italia: i volontari, non sospettando l'agguato che loro tendevasi, risposero al grido traditore con fragorosissimi applausi.

I napoletani, fatti certi che i due legni appartenevano alle spedizioni garibaldiane, issarono bandiera borbonica ed intimarono loro d'arrendersi. I due navigli, comeché destituiti d'ogni difesa, costretti trovaronsi ad obbedire all'imperioso comando, accompagnato da qualche colpo di cannone che per fortuna non arrecò nessun danno. I borboniani attaccarono l'Utile.

Più fortunati l'Oregon ed il Washington salparono il giorno dopo dal medesimo porto, e si ancorarono il 15 in vista di Cagliari: ivi sostarono ad ordinare militarmente le truppe, a formare le compagnie ed i battaglioni, a vestirli ed armarli, giacché voleasi pervenire in Sicilia con milizie già pronte ad entrare in campagna.
Quindi ripresero il largo, condotti dalla stella che aveva guidato Garibaldi a Marsala; e dopo una prospera navigazione gettarono l'ancora nella baia di Castellamare, alle cinque e mezzo pomeridiane del giorno 17 maggio. Di là, i volontari si riposero la sera stessa in viaggio, e giunsero ad Alcamo; e quindi si diressero, per la via di Partinico e Monreale a Palermo.

A mezzogiorno dell'11, il Clipper e l'Utile, rimorchiati dalle fregate napoletane che li avevan sorpresi, entrarono nel porto di Gaeta. Durante quell'angoscioso viaggio furono essi di frequente fatti segno e bersaglio alle ire de' soldati borbonici, i quali credevano forse riscattarsi delle tocche sconfitte coll'infierire sui prigionieri e gl'inermi.
Il tragitto del capo Côrso, dove i due legni vennero presi, a Gaeta avea durato quarant'ore all'incirca: ed i volontari tutto quel tempo passarono nella dolorosa apprensione di vedersi da un momento all'altro calati e sommersi. Infatti, i legni napoletani tenevano tre pezzi di cannone ciascuno appostati contro i vascelli italiani, e pronti a far fuoco al minimo segnale del loro comandante.

Un ufficiale appartenente alla marina borbonica, saliva sul Clipper, pochi momenti dopo il suo arrivo, per domandare le patenti di navigazione. Enrico Wathson (tale è il nome del benemerito capitano del Clipper) allora comparve sul cassero, e ricevette il visitatore con quella fredda urbanità ch'è solito indirizzo d'animo fiero e imperterrito.

Alle intimazioni dell'ufficiale che pretendeva ad ogni costo visitare le carte di bordo, l'intrepido americano freddamente rispose non essere egli solito ad esibire la patente a pirati, a gente che senza o con simulata bandiera aveva osato insultare l'americano vessillo, ed assalire e catturare navigli di quello coperti e protetti.
Dichiarò non avrebbe mai, se non alla forza brutale, ceduto, ma in ogni evento ammoniva lo sgherro di Francesco II del pericolo che il suo padrone poteva correre, ove le cose fossero portate all'estremo. Rammentò, che gli Stati Uniti possedevano flotte sufficienti a vendicare l'ingiuria, ed a devastare tutto il litorale del regno. E concluse infine, protestando che non avrebbe in verun caso consegnate le carte se non al console rappresentante in que' lidi l'americano governo.

Queste dichiarazioni costernarono l'ufficiale nemico; e gli astanti malignamente osservarono la strana impressione che le parole di Wathson facevano nell'animo di lui. Durante il colloquio, il borbonico convulsivamente sfogliava una rosa che a caso tenea fra le dita, e mostravasi titubante ed inquieto, quasi versasse in misterioso pericolo. Egli si ritirò dal Clipper, portando seco lo scherno di tutti.

Mezz'ora non era trascorsa, quando un altro personaggio, come il primo appartenente alla regia marina e che i volontari credettero il governatore del forte, comparve sul Clipper, conducendo un tale che presentò come console americano. Se non che la sagacia e l'acutezza di Wathson valse a smascherare la frode: il sedicente console non era che un miserabile impostore a prezzo comprato nell'intendimento di trarre in inganno l'avveduto comandante, ed indurlo a consegnar le patenti. Le proteste di Wathson furono dignitose ed energiche, quali s'addicevano ad uomo che si aveva vilmente cercato sorprendere.

Dopo un assai vivo colloquio, i due napoletani, frustrati nei loro disegni, e scornati e vilipesi dall'intiero equipaggio, ritornarono a terra a rendere conto al governo dell'infruttosa loro missione. Nel porto e nel forte, regnava frattanto la massima costernazione: i napoletani parevano allarmati dalla stessa loro vittoria. Forse in quei momenti non altro avrebbero meglio desiderato quanto il non averla ottenuta.

Avevano essi catturato una intiera spedizione; ma erano le conseguenze del fatto, ingigantite da superstizioso timore, che più gli paurivano. Non si dissimulavano l'agitazione che quell' avvenimento doveva suscitare nell'Italia superiore e nello stesso regno delle Due Sicilie: né, dall'altro canto, la cattura di due trasporti poteva avere sulla guerra che ferveva nell'isola quell'importanza che decide delle sorti d'un governo e di un popolo.

Fra le numerosissime spedizioni che giornalmente eseguivansi dalle coste liguri e toscane, due soli imbarcazioni, e forse le meno importanti, erano state sorprese ed arrestate dalla flotta borbonica. Se i borbonici avessero avuto la fortuna e l'audacia d'impadronirsi del Piemonte e del Lombardo, nel primo loro viaggio, la guerra di Sicilia sarebbe stata finita sul nascere. Ma dopo che Garibaldi, sbarcato a Marsala, era entrato vittorioso in Palermo la cattura dei due legni diventava un fatto di picciol momento, né poteva esercitare sui destini d' Italia veruna perniciosa influenza.

Ecco perché, in luogo di infiammare l'entusiasmo dei borboniani, la cattura del Clipper e dell'Utile inspirava loro un sentimento di dubbio, d'allarme e paura. Ed invero tanta apprensione, sebben prigionieri ed inermi, i volontari destavano, che il governatore della fortezza si credette obbligato a prendere le più rigorose misure per vietare loro qualunque contatto sia cogli abitanti sia coi soldati medesimi: temevasi che il fuoco sacro della libertà s'insinuasse in quell'anime educate ai capricci ed alle tirannie della corte borbonica.

Ai volontari fu quindi impedito lo scendere a terra: stipati com'erano sui loro navigli, eglino dovettero rimanere a bordo, né per qualunque preghiera od istanza fu loro concessa la benché menoma relazione colla città e colla truppa. Il governo non dimenticò veruna precauzione per tôrre ne' volontari la possibilità di penetrare nella fortezza; e le precauzioni stesse mostravano l'apprensione da cui era dominato.

Due fregate da guerra, con cannoni livellati e già pronti, guardavano i volontari: e l'artiglieria del forte minacciava d'aprire il fuoco, e mandarli a picco al primo segnale che dato le fosse. E quasi ciò non bastasse da dieci o dodici barche vennero collocate ai loro fianchi, affine di esercitare una sorveglianza più vicina e più pronta. In tal guisa, esclusi dal mondo e prigionieri sui propri vascelli, quegl'infelici rimasero destituiti d'ogni umano soccorso: solo il 23, e dopo lunghissime pratiche, ottennero di bagnarsi nel mare sotto gli occhi medesimi dei loro guardiani; e solo dopo venti giorni durati fra le più ardue torture, fra le privazioni ed i terrori pervennero a ricuperare la lor libertà.

Sulle prime Francesco II resisteva alle sollecitazioni che da ogni parte venivangli fatte in favore de' suoi prigionieri. Egli altamente reclamava il sovrano diritto a punire coloro che accorrevano a turbare la tranquillità del suo regno, dimenticando che i deboli non hanno diritti o gli hanno soltanto per vederli violati. In appresso, e per le vittorie di Garibaldi, e per la pessima piega che gli affari prendevano eziandio nella capitale stessa del regno, smessa l'usata baldanza, assunse più miti consigli, e dopo mille dichiarazioni e proteste cedette alle istanze di tutti, e risolse rimettere in libertà l'equipaggio ed i legni.

Alle sei pomeridiane del giorno 28, il vice-console sardo residente a Gaeta, per incarico avutone dal governo di Napoli, recava ai volontari la fausta notizia che i due vascelli erano liberi, ed avrebbero potuto del seguente mattino salpar da quel porto. Non è a dire l'impressione che produsse la grata novella: chi la portò venne accolto da fragorosissimi applausi ed evviva alla indipendenza e all'Italia. Quei prodi sembravano trasportati di gioia non tanto per la ricuperata libertà quanto per la speranza di prendere la rivincita sui loro nemici, e di raggiungere i vittoriosi compagni.

Lo stesso giorno, il governo borboniano promise che il comandante della spedizione noleggiasse altri legni pel trasporto de' suoi volontari. Il pericolo che quella agglomerazione di uomini, da venti giorni accatastati in sì piccolo spazio ed esposti a spaventevoli disagi, potesse produrre un contagio avea costretto il comandante italiano a domandare al governo, la concessione suddetta.
S' imbarcarono, la medesima sera, le necessarie provvigioni: ed al vegnente mattino i volontari, salutati dalla regia corvetta il Miseno, abbandonaron quelle acque dirigendo il corso su Genova, dove, dopo qualche incidente di niuno o di piccol rilievo, arrivarono. Il Clipper e l'Utile gettarono l'ancora alle ore tre del nono giorno di luglio, appunto un mese dalla loro partenza.

I volontari con essi tornati ripigliarono, dopo soli quattro giorni di riposo, il viaggio sull'Amazon alla volta dell'isola.


[1] - giornale quotidiano L'Unità Italiana - n. 101 e 102 del 12 e 13 luglio 1860.   <<

[2] - Antonio Balbiani - Il Messia dei popoli oppressi - Volume Secondo - Tipografia Editrice Dante Alighieri - Milano, 1872.   <<


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